Un tram chiamato Genova

Nella storia di una vettura, l’allegoria di una città

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A volte, vicende apparentemente soltanto locali possono e debbono avere una risonanza ben più vasta. A volte, estenuanti dibattiti sul futuro di una città svaniscono nella riscoperta di un passato tanto recente nel tempo quanto remoto nella mentalità. A volte, una banale buca in una strada può disvelare le ultime tracce di un’età dell’oro colpevolmente obliata nell’asfalto.

È il caso di Genova, odierno confuso agglomerato restio a darsi una nuova identità, imbambolata com’è nella sua condizione di “ex”: ex-metropoli, ex-polo industriale, ex-capitale finanziaria, ex-Superba. Capita allora che in questa città un dibattito come quello sulla mobilità prenda, molto più che altrove, il gusto amaro del rimpianto. Rimpianto per una soluzione a tanti problemi di oggi, lunga tredici metri e larga poco più di due, diffusissima all’ombra della Lanterna fino a cinquant’anni fa e poi malamente accantonata: un tram chiamato “Genova”.

La serie “900” (o “littorina”, o appunto “Genova”), termine ultimo di fondamentali approfondimenti progettuali degli anni Trenta, è stato il riferimento di gran parte del disegno tranviario del Dopoguerra. Suo ideatore fu, nel 1939, l’ingegner Barbieri, direttore della società genovese UITE (Unione Italiana Tramvie Elettriche) dal ’37, proveniente dall’azienda di trasporti di Bologna, per la quale aveva concepito, nel 1934, la vettura 200, sicura antesignana della littorina.

Testo integrale sul Wall Street International

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