Quando i minareti non ci spaventavano
Menti e braccia italiane alle prese con un simbolo islamico
Quadrangolari o poligonali, a torre o a stelo, massicci o filiformi, comunque svettanti nel panorama: sono i minareti, coronamento immancabile delle città mediorientali grandi e piccole, nonché componente imprescindibile delle moschee.
Elemento architettonico realizzato in svariati stili, tipi e materiali, siamo ormai abituati da decenni a sentirne parlare come di un corpo estraneo, avulso, improponibile “qui da Noi” adducendo goffe giustificazioni, ora tipologiche ora ideologiche, volte perlopiù a coprire una madornale superficialità, lacuna facilmente ovviabile con un buon corso di Storia dell’Arte, guarda caso cancellata dai piani di studio della scuola dell’obbligo. In principio, negli anni Novanta, fu la querelle sull’altezza massima consentita al minareto della costruenda moschea di Roma, dopodiché il dibattito, già miserabile in partenza, complice un contesto internazionale via via più cupo, è andato ulteriormente degenerando fino all’odierna caciara mediatica fomentata da crociati da tastiera e tribuni felpati.
Con buona pace di costoro, minareti, paesaggio italiano e Italiani sono molto più familiari gli uni agli altri di quanto non si creda comunemente. L’Italia può vantare da secoli una folta casistica di manufatti derivati dai minareti, all’interno di un repertorio, quello gotico, la cui matrice è ampiamente araba, sia nei motivi stilistici (la bicromia bianco/nero) sia nelle componenti architettoniche (l’arco a sesto acuto): non a caso il Gotico fiorisce in Europa dopo il rientro dei reduci dalla prima Crociata. È allora in questo quadro di scambi e contaminazioni che trova una spiegazione in più, nell’Italia centro-settentrionale e specialmente nell’area lombardo-veneta, la fitta presenza di guglie, pinnacoli, campanili e torri dall’aspetto altrimenti poco giustificabile: perdono quindi bizzarria e arbitrarietà i minareti-campanili della basilica del Santo a Padova, così come ci si stupisce molto meno dell’indubbia somiglianza fra il Torrazzo di Cremona e la Giralda di Siviglia. Viene da sé infine la spiegazione di certi pinnacoli tipici del Quattrocento lombardo, veri e propri minareti in miniatura. Perfino Palladio li impiega, un secolo dopo, addossandone due, sempre in funzione di campanile, alla chiesa del Redentore a Venezia, in posizione ben visibile dall’ambasciata ottomana.
La fine della prima grande ondata espansionistica turca favorisce una nuova fase di commistioni fra le due sponde del Mediterraneo: a Genova, dove prigionieri islamici sono impiegati non solo nell’Arsenale ma anche nella progettazione di giardini (valga per tutti il caso di Ahmed, giardiniere di palazzo di Andrea Doria), il repertorio moresco di chioschi e giochi d’acqua raggiunge il suo culmine nel parco di Palazzo Lomellino, dove l’esigenza di cisterne in quota per rifornire le fontane viene risolta, nel Settecento, con la costruzione di un bianco minareto-belvedere, da cui osservare i movimenti in porto tanto cari al padrone di casa: si tratta forse del primo caso, almeno in Italia, di impiego di questa tipologia al di fuori dell’ambito religioso, inoltre è un escamotage destinato a maggior successo allorquando, a metà Ottocento, l’indebolirsi del monopolio stilistico classicista rende progressivamente più accettabili le citazioni da altri repertori, non escluso quello esotico.
Testo integrale sul Wall Street International